Il nostro atto di smarrimento
(Dalla copertina di Atti impuri, n°3)
Un oblò che getta nell’oscurità: si può immaginare che il foro scavi verso il basso, s’insinui in un abisso incolmato/incolmabile. Dall’oblò escono quattro mani, due sinistre e due destre, ma non ci è dato sapere se sono mani che appartengono a due persone o più. La sensazione è quella di una prigionia orrenda e inquietante, forse anche macabra nella misura in cui potrebbero essere mani di uomini condannati a morte o condannati all’oblio. Il ferro che compone i bordi dell’oblò è arrugginito, scolorito, sfatto: e poi ci sono delle mosche sull’immagine, tre per l’esattezza, di cui due s’appoggiano su due mani, e una formica. è un’immagine apocalittica di una sconfitta esplicitata, di una volontà di fuga frustrata.
E talora è un messaggio, un grido di attenzione: l’abisso esiste, noi ci siamo dentro, ve lo possiamo assicurare: e l’unico foro, contatto con l’esterno, non permette neppure lo sguardo ma solo il tastare cieco delle mani.
E poi l’ultima cosa: l’oblò spinge lo sguardo in profondità, ovvero oltre la copertina, ovvero tra le pagine che seguono, ovvero tra i racconti: ci porta, volenti o nolenti, verso il mostro scuro delle parole, dei bassifondi narrati, dei grigi, delle prigioni, delle paure, delle negazioni: la copertina anticipa, fa da tramite, da varco, attraverso il quale arrivare alle narrazioni già prevenuti, già pronti a scoprirne la claustrofobia, il soffocamento.
Quello che lega i primi sei racconti (in verità sette, ma gli ultimi due si possono accomunare in grazie della loro brevità e dell’appartenenza ad un medesimo autore) corre lungo il medesimo confine che separa la volontà di essere, nel senso più largo e sublime, dalla sensazione di mancanza/stordimento/perdita.
Non c’è trama in comune, né caratteristiche fisiche o sociali che caratterizzino tutti i personaggi se non una strana silenziosità (che se non è concreta, se non è mutismo, è un tacito ammutolirsi dei sensi o della volontà).
False testimonianze
La sezione che raccoglie questi sette racconti, tutti italiani, è denominata False testimonianze; ma non è da intendere come una narrazione improntata alla menzogna, quanto una narrazione costretta dalla menzogna.
Esistono mistificazioni che nascono dalla volontà di nascondere un evento, un fatto, una presenza ma queste, invece, sono mistificazioni nate dal nascondimento forzato (non voluto) dell’esistente; non sono dunque falsità costruite ma falsità subite. Ed è per conseguenza a questa presenza ambigua e ridotta della realtà che la testimonianza non può che essere falsa, costretta a dare conto di qualcosa che si è perso, che si è nascosto.
Questa è una falsità passiva, non perpetrata.
La promessa
La promessa è ciò che non c’è in questa selezione di racconti: potrebbe essere considerata invece una promessa quella espressa dalle parole dell’editoriale, ma è più giusto definirla come un avviso ai naviganti:
“Dal presente, del resto, si può sempre fuggire facendo il morto o il pazzo. E la scrittura ha spesso maneggiato il mondo circumnavigando attorno agli abissi della follia e dalla morte, sfidando entrambe con lucida incoscienza. Atti impuri è un luogo immaginato per chi subisce il fascino violento dell'opposto dal presente e da sé, dell'ordine e della deriva”
La letteratura che si spende come sfida al viaggio, invito alla deriva o proposta di periplo intorno ai gorghi di morte e pazzia, questa letteratura potenziale che qui si legge, che qui si vaticina, sembra portare speranza. Che sia una speranza di unità o di conoscenza o di salvataggio o d’uscita dagli inferi, o anche una speranza abietta ma dai fini salvifici, come un ladrocinio di luce, questo si spera: che sia finalmente una letteratura di luogo, di indicazione, di esatta segnaletica.
Ma non ci sono luoghi sicuri, luoghi certi di futuro o di presente, ma solo ingressi ad “imbuto”, “uffici asettici”, “storie di altri”, odore di “coriandolo e muffa” e “citofoni” per segnare la distanza negli stretti dialoghi o “case mute” e poi “presentimenti di catastrofe”.
Tutte queste descrizioni, rubate più o meno in ordine dalla successione dei racconti, disegnano i punti cruciali di una mappa di spaesamento. Certo è assurdo pensare ad una mappa disegnata per perdersi, mappa di sconfinamento e di annullamento dell’orientamento, ma sono queste le nostre nuove prove narrative.
Nessun aspetto è tralasciato: c’è la storia di donne che sono perfettamente altro da sé, di uomini che non sanno cosa sia la loro vita (o che sanno troppo bene cosa non sarà) oppure che non si possono ritrovare o non sanno recuperare ciò che amano; uomini chiusi e letargici svegliati solo momentaneamente, ma fugaci, ombre di un potenziale essere, che stanno spegnendosi insieme alla loro lingua, e poi uomini che si sanno troppo uomini per capire che felicità non è che “orrore sottile”.
Percolare
La sensazione è quella di un percolare, di un infiltrarsi fuori della componente esistenziale, della volontà e della consapevolezza dell’essere. La fuga è avvenuta di soppiatto, lentamente, senza traumi, ma il risultato è devastante: i personaggi non sanno riconoscersi e neppure sanno identificarsi negli altri. E non sanno perdonarsi.
Plenilunio mette in scena una sconfitta sociale, una sconfitta di comprensione ed una d’azione: conoscere il mondo solo perché esso si mostra nella sua crudezza, ma non riuscirne a scalfire la superficie, non saper dare spiegazione alla trappola della propria vita, e non saper rintuzzare quella mancanza violenta che si scopre nella frizione con la vita d’altri: vivere solo grazie all’abbrivio iniziale.
In Storia avventurosa degli abiti che indossa la perdita è fisica, concreta, materiale: tutto è narrato da una seconda persona, dunque è tutta una lunga scena muta in cui il personaggio si forma pezza a pezza, ed ogni indumento che gli si calza indosso si fa memore della perdita d’una sua scheggia d’esistenza individuale, particolare, ferma.
Taxi girl è invece la sconfitta dell’uomo all’interno dell’ambiente che gli si fa ostile, perduto: i colori sbiaditi sono il corpo fisico e martoriato del personaggio: l’odore oscilla tra la frittura e la muffa: esasperazione di una vita quotidiana estrema e/o consunta e la sua degradazione finale, il suo lascito di inerzia che spinge in una direzione vuota, luogo di annullamento e perdita, di resa, di annichilimento, anche della volontà.
Testimoni dell’estintore è forse il racconto più positivo, quello con il carico di speranza più pieno, più ottimale: qui la perdita/mancanza è quella del linguaggio e, assieme ad esso, della capacità d’espressione di umanità complessa: si mette dunque in scena una riduzione d’esistenza, semplificazione millimetrica della volontà, che scivola verso il vuoto. Ma permane l’illusione che la resa dell’anima al nulla può essere evitata.
è un bene che la casa diventi nuda non nasconde la sua analisi umana di profondità inaudita. Lo sguardo ad un uomo, il perdono non concesso ad un padre ma forse la comprensione di un elemento più completo della natura umana fa di questo racconto la narrazione più estesa della mancanza che ci opprime, dell’assenza che è l’incapacità congenita ad una felicità innocente, senza orrore. è questa la privazione finale, direi più potente, primaria: mancando questa, è un bene che si faccia vuoto intorno al luogo adibito all’uomo perché il suo nudo interiore sia esorcizzato da quello fisico, puro, curativo dell’ambiente concreto.
E tutto si conclude nel modo più palpabile, più fisico possibile, con la prigione vera, forte, carnale di Anime gemelle. Evidentissimo il sentimento di claustrofobia che ne deriva, di assenza come assenza di potenzialità: basta elencare le parole più evocative: senza sbocco, deserto, gabbia, imbuto, cabina buia, penombra.
Il luogo supremo della sconfitta. Se queste mani, per l’oblò della loro prigionia, ci hanno consegnato il loro messaggio, ora ci tocca assegnare alle loro parole la preghiera di disfatta che portano, una sorta di lungo lamento, di navigazione a vista sulla scadenza delle nostre potenzialità: l’atto di vita che ci donano, oscuro buio pervicace, è però il più puro, quello sopravvissuto ad ogni tempesta, ad ogni vessazione. La loro mancanza può essere il nostro nuovo luogo d’avvenire:
“Solo, tra le pieghe delle lenzuola, c’è un microscopico globo, un insetto di luce che subito si scuote, si stacca dalla stoffa e vola via – ed è la grazia, l’unica grazia possibile, polverizzazione e fuga, di questa città senza salvezza.”