martedì 21 febbraio 2012

Avere più pane degli altri

In via Libia a Bologna sta discretamente, un po' pudico, un piccolo luogo di culto islamico. E' minuto, inadeguato, freddo ma bianco, un bianco che contrasta spessamente con il colorito più olivastro della pelle di chi frequenta, e anche con la mia che prende di quel colore che è nato dal cilento dei miei genitori.

Ho cominciato la mia ricerca per la tesi di laurea, e mi sono tolto le scarpe per entrare, ed era l'unica cosa che sapevo: dopo un'ora ero seduto a terra e mangiavo da un unico piatto di portata, cibo marocchino offerto da un neosposo, che non era presente, assieme a buone persone che parlavano buone lingue, un po' tutte a rappresentare un luogo diverso del mondo: Pakistan, Bangladesh, Marocco, Macedonia, Albania, Italia infine. Mi hanno raccontato sottili storie, e hanno risposto alle mie vezzose domande.

Infine c'è da dire che ero quello a cui avevano dato più pane, tra tutti.


giovedì 13 ottobre 2011

Il nostro atto di smarrimento

Il nostro atto di smarrimento

(Dalla copertina di Atti impuri, n°3)

Un oblò che getta nell’oscurità: si può immaginare che il foro scavi verso il basso, s’insinui in un abisso incolmato/incolmabile. Dall’oblò escono quattro mani, due sinistre e due destre, ma non ci è dato sapere se sono mani che appartengono a due persone o più. La sensazione è quella di una prigionia orrenda e inquietante, forse anche macabra nella misura in cui potrebbero essere mani di uomini condannati a morte o condannati all’oblio. Il ferro che compone i bordi dell’oblò è arrugginito, scolorito, sfatto: e poi ci sono delle mosche sull’immagine, tre per l’esattezza, di cui due s’appoggiano su due mani, e una formica. è un’immagine apocalittica di una sconfitta esplicitata, di una volontà di fuga frustrata.

E talora è un messaggio, un grido di attenzione: l’abisso esiste, noi ci siamo dentro, ve lo possiamo assicurare: e l’unico foro, contatto con l’esterno, non permette neppure lo sguardo ma solo il tastare cieco delle mani.

E poi l’ultima cosa: l’oblò spinge lo sguardo in profondità, ovvero oltre la copertina, ovvero tra le pagine che seguono, ovvero tra i racconti: ci porta, volenti o nolenti, verso il mostro scuro delle parole, dei bassifondi narrati, dei grigi, delle prigioni, delle paure, delle negazioni: la copertina anticipa, fa da tramite, da varco, attraverso il quale arrivare alle narrazioni già prevenuti, già pronti a scoprirne la claustrofobia, il soffocamento.

Quello che lega i primi sei racconti (in verità sette, ma gli ultimi due si possono accomunare in grazie della loro brevità e dell’appartenenza ad un medesimo autore) corre lungo il medesimo confine che separa la volontà di essere, nel senso più largo e sublime, dalla sensazione di mancanza/stordimento/perdita.

Non c’è trama in comune, né caratteristiche fisiche o sociali che caratterizzino tutti i personaggi se non una strana silenziosità (che se non è concreta, se non è mutismo, è un tacito ammutolirsi dei sensi o della volontà).

False testimonianze

La sezione che raccoglie questi sette racconti, tutti italiani, è denominata False testimonianze; ma non è da intendere come una narrazione improntata alla menzogna, quanto una narrazione costretta dalla menzogna.

Esistono mistificazioni che nascono dalla volontà di nascondere un evento, un fatto, una presenza ma queste, invece, sono mistificazioni nate dal nascondimento forzato (non voluto) dell’esistente; non sono dunque falsità costruite ma falsità subite. Ed è per conseguenza a questa presenza ambigua e ridotta della realtà che la testimonianza non può che essere falsa, costretta a dare conto di qualcosa che si è perso, che si è nascosto.

Questa è una falsità passiva, non perpetrata.

La promessa

La promessa è ciò che non c’è in questa selezione di racconti: potrebbe essere considerata invece una promessa quella espressa dalle parole dell’editoriale, ma è più giusto definirla come un avviso ai naviganti:

Dal presente, del resto, si può sempre fuggire facendo il morto o il pazzo. E la scrittura ha spesso maneggiato il mondo circumnavigando attorno agli abissi della follia e dalla morte, sfidando entrambe con lucida incoscienza. Atti impuri è un luogo immaginato per chi subisce il fascino violento dell'opposto dal presente e da sé, dell'ordine e della deriva[1]

La letteratura che si spende come sfida al viaggio, invito alla deriva o proposta di periplo intorno ai gorghi di morte e pazzia, questa letteratura potenziale che qui si legge, che qui si vaticina, sembra portare speranza. Che sia una speranza di unità o di conoscenza o di salvataggio o d’uscita dagli inferi, o anche una speranza abietta ma dai fini salvifici, come un ladrocinio di luce, questo si spera: che sia finalmente una letteratura di luogo, di indicazione, di esatta segnaletica.

Ma non ci sono luoghi sicuri, luoghi certi di futuro o di presente, ma solo ingressi ad “imbuto”[2], “uffici asettici”[3], “storie di altri”[4], odore di “coriandolo e muffa”[5] e “citofoni”[6] per segnare la distanza negli stretti dialoghi o “case mute”[7] e poi “presentimenti di catastrofe”[8].

Tutte queste descrizioni, rubate più o meno in ordine dalla successione dei racconti, disegnano i punti cruciali di una mappa di spaesamento. Certo è assurdo pensare ad una mappa disegnata per perdersi, mappa di sconfinamento e di annullamento dell’orientamento, ma sono queste le nostre nuove prove narrative.

Nessun aspetto è tralasciato: c’è la storia di donne che sono perfettamente altro da sé, di uomini che non sanno cosa sia la loro vita (o che sanno troppo bene cosa non sarà) oppure che non si possono ritrovare o non sanno recuperare ciò che amano; uomini chiusi e letargici svegliati solo momentaneamente, ma fugaci, ombre di un potenziale essere, che stanno spegnendosi insieme alla loro lingua, e poi uomini che si sanno troppo uomini per capire che felicità non è che “orrore sottile”.

Percolare

La sensazione è quella di un percolare, di un infiltrarsi fuori della componente esistenziale, della volontà e della consapevolezza dell’essere. La fuga è avvenuta di soppiatto, lentamente, senza traumi, ma il risultato è devastante: i personaggi non sanno riconoscersi e neppure sanno identificarsi negli altri. E non sanno perdonarsi.

Plenilunio mette in scena una sconfitta sociale, una sconfitta di comprensione ed una d’azione: conoscere il mondo solo perché esso si mostra nella sua crudezza, ma non riuscirne a scalfire la superficie, non saper dare spiegazione alla trappola della propria vita, e non saper rintuzzare quella mancanza violenta che si scopre nella frizione con la vita d’altri: vivere solo grazie all’abbrivio iniziale [9].

In Storia avventurosa degli abiti che indossa la perdita è fisica, concreta, materiale: tutto è narrato da una seconda persona, dunque è tutta una lunga scena muta in cui il personaggio si forma pezza a pezza, ed ogni indumento che gli si calza indosso si fa memore della perdita d’una sua scheggia d’esistenza individuale, particolare, ferma[10].

Taxi girl è invece la sconfitta dell’uomo all’interno dell’ambiente che gli si fa ostile, perduto: i colori sbiaditi sono il corpo fisico e martoriato del personaggio: l’odore oscilla tra la frittura e la muffa: esasperazione di una vita quotidiana estrema e/o consunta e la sua degradazione finale, il suo lascito di inerzia che spinge in una direzione vuota, luogo di annullamento e perdita, di resa, di annichilimento, anche della volontà[11].

Testimoni dell’estintore è forse il racconto più positivo, quello con il carico di speranza più pieno, più ottimale: qui la perdita/mancanza è quella del linguaggio e, assieme ad esso, della capacità d’espressione di umanità complessa: si mette dunque in scena una riduzione d’esistenza, semplificazione millimetrica della volontà, che scivola verso il vuoto. Ma permane l’illusione che la resa dell’anima al nulla può essere evitata[12].

è un bene che la casa diventi nuda non nasconde la sua analisi umana di profondità inaudita. Lo sguardo ad un uomo, il perdono non concesso ad un padre ma forse la comprensione di un elemento più completo della natura umana fa di questo racconto la narrazione più estesa della mancanza che ci opprime, dell’assenza che è l’incapacità congenita ad una felicità innocente, senza orrore. è questa la privazione finale, direi più potente, primaria: mancando questa, è un bene che si faccia vuoto intorno al luogo adibito all’uomo perché il suo nudo interiore sia esorcizzato da quello fisico, puro, curativo dell’ambiente concreto[13].

E tutto si conclude nel modo più palpabile, più fisico possibile, con la prigione vera, forte, carnale di Anime gemelle. Evidentissimo il sentimento di claustrofobia che ne deriva, di assenza come assenza di potenzialità: basta elencare le parole più evocative: senza sbocco, deserto, gabbia, imbuto, cabina buia, penombra[14].

Il luogo supremo della sconfitta. Se queste mani, per l’oblò della loro prigionia, ci hanno consegnato il loro messaggio, ora ci tocca assegnare alle loro parole la preghiera di disfatta che portano, una sorta di lungo lamento, di navigazione a vista sulla scadenza delle nostre potenzialità: l’atto di vita che ci donano, oscuro buio pervicace, è però il più puro, quello sopravvissuto ad ogni tempesta, ad ogni vessazione. La loro mancanza può essere il nostro nuovo luogo d’avvenire:

Solo, tra le pieghe delle lenzuola, c’è un microscopico globo, un insetto di luce che subito si scuote, si stacca dalla stoffa e vola via – ed è la grazia, l’unica grazia possibile, polverizzazione e fuga, di questa città senza salvezza.[15]



[1] Editoriale, Sparajurij, in Atti impuri, n°3

[2] R. Ferrazzi, Anime gemelle, in Atti impuri, n°3

[3] E. Ruotolo, Plenilunio, ivi

[4] G. Caliceti, Storia avventurosa degli abiti che indossa, ivi

[5] G. Schillaci, Taxi girl, ivi

[6] G. Mercadante, Testimoni dell’estintore, ivi

[7] D. Paolin, E’ un bene, che la casa diventi nuda, ivi

[8] R. Ferrazzi, Occasioni mancate, ivi

[9] Lui continua con le pietre, la calce, la rena da impastare, le giornate di schiena al sole e di faccia al vento. Però la notte dorme[…]. Dorme come se avesse il cuore in pace”

[10]Lo stesso è per le storie che le sono capitate prima di questa ultima dose fatale. Non sono mai state storie sue. Sono sempre storie di altri.

[11]Avrei voluto poggiare la testa sulle tue ginocchia e sentire le tue mani fredde sulla fronte. Ma tu non c’eri e l’autista del tuk tuk sorrideva e non mi parlava, continuava a fissarmi come un Buddha di plastica, e non parlava.

[12] Una lingua, qualsiasi lingua, è l’essenza della visione di un mondo. Tolta a una lingua la sua ricchezza, si priva il popolo di un’identità, di un gusto.

[13] Tutto ciò che abbiamo compiuto è umano, il disumano è solo un modo diverso di vedere le cose. La materia è la stessa. Siamo tutti la medesima cosa. Questa cosa è l’orrore sottile della felicità, l’idea che si è felici nonostante si compia il male, nonostante si abbiano pensieri sul male.”

[14] Ma aveva un sorriso che veniva dal’anima e metteva allegria. aveva perfino le gambe dritte. Portava le scarpe con i tacchi alti. E tutto a un tratto, tutto insieme, questa voglia di tendine alle finestre, i capelli corti, il sussiego.[…]Si comincia a morire poco a poco.”

[15] La forma della grazia, Giorgio Vasta, in Atti impuri n°2

Questa città di notte

Vecchio sonno
di questa città
macchia antica
presenza
mappa dei luoghi sconosciuti
dei luoghi-desiderio

quando le parole sanguinano dalla bocca
per mancanza di ordine
per rapina
buon gusto borghese che esiste e si fa sulla carta
parole pesate per la lingua colta
parole misurate per il turbamento minimo
parole per una notte di soppiatto
ché di sonno manca
come il vuoto d’aria
pressione pneumatica del torace
alla vista della luna obliqua dal taglio della finestra
come è sempre stata è sarà

mistero della sua annunciazione
della sua chiesa vuota
bianca e vuota
liturgia della parola tenuta in grembo
buoni uomini che non parlano
perché il sordo non sia sconvolto dal suono

sabato 8 ottobre 2011

L'atto puro di smarrimento

L’atto puro di smarrimento

Dall’editoriale di Atti impuri, n°3: "Dal presente, del resto, si può sempre fuggire facendo il morto o il pazzo. E la scrittura ha spesso maneggiato il mondo circumnavigando attorno agli abissi della follia e dalla morte, sfidando entrambe con lucida incoscienza. Atti impuri è un luogo immaginato per chi subisce il fascino violento dell'opposto dal presente e da sé, dell'ordine e della deriva."

La letteratura che si spende come sfida al viaggio, invito alla deriva o proposta di periplo intorno ai gorghi di morte e pazzia, questa letteratura potenziale che qui si legge, che qui si vaticina, sembra portare speranza. Che sia una speranza di unità o di conoscenza o di salvataggio o d’uscita dagli inferi, o anche una speranza abietta ma dai fini salvifici, come un ladrocinio di luce, questo si spera: che sia finalmente una letteratura di luogo, di indicazione, di esatta segnaletica.

Ma oggi, immancabilmente, non solo l’approdo di questa letteratura è una sconfitta, ma è una sconfitta che si consuma in una terra innominata.

Io sono diventano grande e inutile quella notte di sedici anni fa: mentre Matteo e mio padre cercavano di guadagnarsi anche per me il diritto di essere uomini e vivi. Rimasi a letto, nonostante le voci in corridoio, perché il giorno dopo c’era scuola, e se Matteo aveva il dovere di saltarla a me era destinato il riscatto d’una famiglia […]” e poi “Credono tutti che io sia felice, che negli uffici asettici dove mi rinchiudo per giornate intere, dietro scrivanie sgomberate di polvere, io abbia trovato un rimedio. Una risposta. Una cura. Nessuno sa niente di come vivo, delle mie notti di vergogna, che quando c’è luna grossa non riesco a dormirla né a stare con una donna. Certo, ho un lavoro pulito. Che Matteo nemmeno se lo sogna. Lui continua con le pietre, la calce, la rena da impastare, le giornate di schiena al sole e di faccia al vento. Però la notte dorme[…]. Dorme come se avesse il cuore in pace”.[1]

Guardala, dice Dalen. Tutti i vestiti che indossa sono vestiti di altri. Trovati. regalati. Rubati. Lo stesso è per le storie che le sono capitate prima di questa ultima dose fatale. Non sono mai state storie sue. Sono sempre storie di altri. Lei ci si ritrovava in mezzo senza accorgersene. Le indossava per caso. C’è chi crede di scegliersi la propria immagine. La propria storia. Le proprie idee. A lei le hanno sempre regalate, le ha trovate, o le ha rubate. Probabilmente così per tutti.[2]

Questa letteratura, nata da “un’officina per piccole false testimonianze, ugualmente ostile agli spiritosi e ai privi di spirito[3]” con l’intento di non lasciarsi degradare/denigrare/divagare non può però fare a meno che approdare agli stessi taglienti scogli che sono l’auto-disconoscimento, lo sradicamento da sé, l’incapacità di comprendersi.

I personaggi (prodotti fittizi di autori reali) non si sanno, non si (ri)conoscono e non possono fare altro che guardare al di fuori di loro stessi nella speranza di un appiglio: non ci narrano nessuna storia a lieto fine, nessuna possibilità di redenzione o di ricongiungimento, ma piuttosto di una continua perdita, di un non-saper-essere, di un non-saper-dire, di un non-saper-divenire.

La narrazione non si interessa di qualsivoglia sviluppo della trama, ma solo di un messaggio, di un’altra volontà: quella di dirci che di questo mondo siamo vittime (consapevoli se ne scriviamo, ingannate se ne viviamo le trame senza parlarne), ma vittime peculiari che, prima ancora che fisiche, sono vittime sensoriali e interpretative.

Viviamo una realtà entro la quale non sappiamo leggere la nostra figura e il nostro ruolo: e non può che trasparire dai nostri racconti questo sradicamento; d’altra parte si manifesta questa tensione a qualcosa, qualcosa esistente, che c’è nello sforzo, nella vessazione, nel fuori di noi[4], comunque mai accessibile né al corpo né alla comprensione. Il personaggio allora (e noi stessi con lui) è in ritracciabile, lettera ad un destinatario defunto o comunque non reperibile.

Siamo scomparsi: anche al di fuori dei gorghi di pazzia e di morte, siamo scomparsi.

Ma c’è di più, ed è l’ultima cosa: non siamo più capaci di trovare la ragione - il motivo - il senso, né presente né passato né futuro del nostro essere: siamo “il nulla di volontà”[5], siamo i modernissimi Bartleby che nelle loro disgregazioni e spiegazioni di ciò che non sono eguagliano e superano la forza nullificatrice del melvilliano I prefer not to: così scappiamo a noi stessi, reduci della nostra sconfitta, piegati a qualcosa che ci opprime, desiderosi di essere altro ma non conoscendo affatto nulla se non la nostra ambiguità:

Solo, tra le pieghe delle lenzuola, c’è un microscopico globo, un insetto di luce che subito si scuote, si stacca dalla stoffa e vola via – ed è la grazia, l’unica grazia possibile, polverizzazione e fuga, di questa città senza salvezza.[6]



[1] Plenilunio, Elisa Ruotolo, in Atti impuri n°3

[2] Storia avventurosa degli abiti che indossa, Giuseppe Caliceti, ivi

[3] Editoriale, Sparajurij, ivi

[4] nel caso del racconto nel fratello, in Matteo, che nella fatica, nella terribilità della sua vita, dorme come se avesse il cuore in pace

[5] Bartleby o la formula, Gilles Deleuze, in Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata, 1993

[6] La forma della grazia, Giorgio Vasta, in Atti impuri n°2

giovedì 4 marzo 2010

Ad esempio, in previsione dell'otto marzo

Donna

Ora
con la tua bocca
e il tuo sguardo violato
sai la necessità di lavorare
oltre il diaframma
della femminilità o
sai il dovere
del convivere
con gli strati carbonizzati della pelle
o del rimanere
(apnea affievolita)
con i gesti muti
nascosta dentro
cercando
il gesto o l’articolazione
oltre la retorica dell’eleganza

Avere le mani sconvolte
e gli occhi vitrei
eppure
saper ritornare dalle profondità delle esclusioni
dall’abisso della tue mancanze
delle tue privazioni
e distinguere un sorriso
tra la marea di denti

Non basta più
la luce
non
rimane più